scrittoQuel giorno mi ero alzata, per la prima volta a memoria d’uomo, prima che l’odiosa sveglia mi chiamasse al dovere. Ero impaziente di scrivere l’ultimo capitolo del mio romanzo ambientato durante la II Guerra Mondiale, vista attraverso gli occhi di due adolescenti ebrei innamorati, tanto giovani quanto forti e coraggiosi nel difendere il futuro del loro amore dagli orrori del grande conflitto di cui avrebbero visto la fine insieme. Avrei consegnato il libro all’editore rispettando la scadenza sul contratto, anche se mancava ancora il titolo: doveva essere breve, accattivante, accennando al contenuto ma senza rivelare troppo. Che noia i titoli! Potevo buttare giù una storia tutta d’un fiato e fermarmi giorni per decidere cosa scrivere in copertina. Guardavo fuori dalla finestra della cucina il paesaggio ancora immobile e buio, ciabattando assonnata per prepararmi in fretta la colazione e mettere così al più presto le mie idee al sicuro su fogli bianchi, prima che voci e rumori interrompessero quella calma irreale. Terence, il mio gatto nero con il nome preso dai cartoni animati di un’infanzia ormai lontana, mi si era avvicinato per cominciare il suo slalom da una gamba all’altra con la coda dritta e lo sguardo implorante per reclamare il primo pasto quotidiano. – Sei un opportunista, vieni da me solo se hai bisogno di cibo e coccole! – gli dissi con tono severo, mentre accarezzavo l’unico essere vivente con cui avevo voluto condividere il mio appartamento. – Dai, prendo subito il nostro latte…O mio Dio.. Manca il latte!” – Chiudo la porta del frigo e guardo Terence allarmata non tanto per la dimenticanza, ma perchè realizzai che io ed il mio gatto avevamo bisogno delle stesse cose per stare bene. La convivenza era diventata simbiosi. Ero arrivata al capolinea! Aveva ragione mia madre: dovevo uscire, vedere gente, farmi una vita sociale. Da quando vivevo sola, era diventata molto apprensiva o forse faceva solo sue le parole di mio padre che non c’era più…non era però questo il momento per pensarci.
Non avevo altra scelta che andare al bar sotto casa, proprio oggi, proprio ora. Indosso il piumino lungo per coprire il discutibile abbinamento pantalone tuta sotto /pigiama pile sopra, scarpe da tennis e giù di corsa dalla scale da dove sentivo ancora Terence miagolare dietro il portone. Il traffico in strada a quell’ora era limitato e con calma stavo per attraversare sulle strisce pedonali, ma una buca interrompe la mia falcata e cado. Cosa ci facevo a terra, in mezzo alla strada, io che fino a cinque minuti prima ero in pantofole a casa mia? Non so, ma adesso stavo guardando il mondo nella stessa prospettiva di un gatto, un cane, una formica…già, come quelle che ho eliminato la sera prima vedendole vicino alle briciole sotto il tavolo, spargendo su di loro, con decisione ed un po’ di cattiveria, la letale polverina bianca. Da bambina la maestra a scuola raccontava di quanto questi insetti fossero del tutto innocui ed instancabili lavoratori, così in casa deviavo il loro percorso con un bastoncino di legno per proteggerli dalla vista degli adulti armati di polverina letale bianca…In fondo, cosa c’era di male nel procurarsi cibo per l’inverno e metterlo al sicuro? Ero diventata crudele! E se, all’uscita del supermercato, un enorme piede ci schiacciasse senza motivo…
– Sta bene, signorina?
– Mi fa un po’ male qui…- risposi, toccandomi la caviglia del tutto sana: stavo tentando goffamente di spostare dalla mia figuraccia l’attenzione della piccola folla. Mi aiutarono ad alzarmi e, fingendomi claudicante, guadagnavo la strada del ritorno, senza più dignità. E senza latte.
Tornavo a casa senza niente, solo qualche senso di colpa in più verso Terence che non si era mosso da lì dove lo avevo lasciato e che cominciò a marcarmi stretto. La disperazione mi guida fino all’armadietto in dispensa per controllare se dietro tutte le cose utili e inutili ci fosse una busta di latte…Eccola, lo sapevo! La sollevo come un trofeo mentre il telefono squilla
– Ciao, mamma. Ti avevo detto che oggi ti avrei chiamato io…-
– E’solo per un saluto –
– Allora ciao. Dai, ti chiamo dopo….Aspetta…Aspetta… “LA NOTTE IN CUI LE FORMICHE DIVENTARONO GIGANTI”!
“LA NOTTE IN CUI LE FORMICHE DIVENTARONO GIGANTI”! –
– Cosa dici? –
– Il titolo del libro, mamma! –
– Tu mi fai preoccup….-
– A stasera, mamma. Un bacio. –
Mi siedo alla mia scrivania, appoggio la tazza della colazione in un angolo e guardo Terence acciambellarsi soddisfatto nella sua cesta, per cominciare le sue infinite ore di sonno. La suoneria del telefonino mi avverte dell’arrivo di un messaggio. La fretta di cominciare era stata più forte dell’abitudine di spegnerlo prima di mettermi al lavoro e adesso ero indecisa se chiuderlo o leggere col pericolo di distrarmi. Corro il rischio e guardo: il mittente “Numero sconosciuto”, leggo il testo “Ti ho visto stamattina. Sei più brava come scrittrice che come attrice. Ciao, piccola. E ricordati: siamo due lenze!”
Mi si fermò il respiro: quello era un modo di dire tra me e mio padre dal giorno in cui, di nascosto a mia madre, mi portò da piccola a pescare invece di accompagnarmi a scuola. Un segreto che sapevamo solo noi due…