In tasca il biglietto della ferrovia acquistato in fretta e un altro da me scritto a chi non l’avrebbe mai letto.
Accanto a me si siede un distinto signore con la giacca profumata di lavanderia piegata sul braccio, appoggia sulle gambe il portadocumenti consumato negli angoli ed apre un quotidiano dalle pagine ancora perfette, la ragazza di fronte distoglie per un attimo lo sguardo verso il paesaggio ancora immobile, fatto di binari e vagoni, per controllare il suo cellulare posandolo con aria delusa mentre la castigata scollatura della camicia fa da icona a quel ciondolo con la lettera “S”, dando tregua alla mia mente distratta ora dalle molteplici ipotesi del nome. La coda nel corridoio aumenta insieme al tono delle voci di chi si affretta ad occupare ormai i pochi posti liberi, il mio vicino di posto a malincuore alza gli occhi da quella barriera di titoli e parole sentendo la voce dell’altoparlante che annuncia un ritardo e manifesta il suo fastidio con un profondo sospiro, il personale comincia a chiudere energicamente le porte del treno esortando a salire i fortunati ritardatari.
Ad un tratto un ticchettio di dita sul mio finestrino prima di quel viaggio che non avrei più fatto.