La mia generazione (40 anni e dintorni) rappresenta l’anello di congiunzione tra il passato remoto e il futuro anteriore.L’epoca, la mia, in cui si poteva ancora chiedere ad un bambino “Da grande che lavoro vuoi fare?”, della cabina telefonica, provvidenziale soluzione per le conversazioni con le amiche, impedite dal lucchetto messo da un intollerante e spazientito papà, che diventavano anche improvvisati rifugi nei giorni di pioggia. Si faceva la spesa nelle piccole botteghe sotto casa dove si comprava, nel tragitto verso la scuola,  la merenda e i quaderni da segnare nella nota, inghiottite ormai dagli ipermercati con dieci casse affollate da carrelli stracolmi e smaltiti da sconosciute commesse dai tristi sorrisi. Per scrivere una lettera compravi francobollo, foglio e busta (magari decorati e profumati), lo scrittore ticchettava sui tasti della sua macchina, insoddisfatto strappava il foglio, riducendo in pezzi i suoi pensieri  mai del tutto cancellati, confermando l’antico, ma non più valido, “Verba volant scripta manent” smentito oggi  dal tasto “cancella”. E poi i gettoni, il latte nelle bottiglie di vetro,
gli orecchini con le ciliegie, le pesche nel vino, l’omino della Lagostina, i formaggini Susanna, le Big Babol, il cane nelle auto con la testa basculante, la Hit Parade, i quiz del Giovedì sera, i varietà del Sabato, i film nelle mattine d’Agosto, Pinocchio di Comencini, la paura di Belfagor, il manuale di Silvan, quello delle Giovani Marmotte,
i dischi in vinile, i lenti,  i punti mira lanza, il vestito buono della domenica e, in mancanza ancora del telefonino, chiedere al ritorno a casa: “mi ha cercato qualcuno?”
Tutte cose che vogliono essere ancora ricordate, vogliono essere raccontate.